Quattro Chiacchiere a TuPerTu con… Paolo Bonolis

Io e Paolo Bonolis

Intervistare qualcuno non è così facile come può sembrare. C’è un lavoro dietro che va dal pratico -ovvero l’organizzare l’intervista prendendo appuntamenti- al teorico -ricercare biografie ed altre interviste. Paolo Bonolis, autore e conduttore televisivo italiano, nel suo camerino dello Studio 1 di “Avanti Un Altro” nel complesso degli STUDI TELEVISIVI ELIOS, ci ha dedicato del tempo per fargli qualche domanda.

Dopo varie presentazioni, domande di routine e l’ospitalità del Dott. Bonolis, iniziamo l’intervista.

D: Qual è stato il suo percorso di studi?
R: Io ho fatto il liceo classico, ho iniziato il percorso universitario a La Sapienza nella facoltà di Giurisprudenza superando tre esami per poi cambiare in Scienze Politiche con indirizzo Politiche Internazionali, in quanto la facoltà di Giurisprudenza non mi piaceva e la ritenevo troppo settoriale, precisa, ed univoca come indirizzo.
La facoltà di Scienze Politiche in quegl’anni era la scelta per chi non sapeva esattamente cosa fare, era un plateau culturale abbastanza ampio da cui si aprivano molte strade. Io in realtà volevo intraprendere la carriera diplomatica, volevo lavorare al Ministero degli Esteri. E poi mi sono ritrovato, televisivamente parlando, impiegato in questo mestiere.

D: Com’è passato da Dottore in Scienze Politiche a Personaggio Televisivo?
R: È stato un passaggio casuale. Nel ’81, durante il primo anno di giurisprudenza, ho accompagnato un mio amico a fare una provino in Rai dove cercavano dei ragazzi per fare un prodotto del pomeriggio e mi sono ritrovato a farlo anche io, anche a mio malgrado. Dopo una decina di giorni sono stato contattato dalla RAI per provare a fare la co-conduzione con Sandro Fedele e Marina Morra del programma “3, 2, 1… Contatto Game!” ed ho cominciato così. «Poi m’è piaciuto… ho continuato ed Amen! Portavo dei soldi a casa… Ero tutto contento!»

D: Conoscendo la condizione universitaria italiana attuale, cosa consiglia di fare? Rimanere in Italia oppure spostarsi?
R: Consiglio non di non restare qui in Italia, però consiglio di prendere seriamente in considerazione l’idea di mobilità, il concetto di muoversi.
L’Italia è un paese che, negli anni 70, si è confezionato con una volontà di garantire a tutti uno stipendio; la grande intuizione dell’IRI, le aziende private ma comunque finanziate dallo stato etc, garantivano assunzioni e stipendi e si cercava così di muovere il mercato. E tutto questo negli anni 70 andava bene, tanto che venivano dal resto del mondo a cercare di capire il nostro sistema.
Adesso è un po’ obsoleto, il mondo è cambiato. Già negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Germania, i ragazzi sono invogliati spesso a muoversi ed allontanarsi già in età abbastanza giovanile, 15-16 anni. Negli Stati Uniti se si viene licenziati da una parte, o perché il lavoro non funziona più oppure se si ha voglia di cambiare, intere famiglie migrano anche a 4/5 fusorari di distanza. Qui, invece, c’è una sorta di attività professionale a KM zero, un po’ come gli ortaggi o la frutta; «Io lavoro qua, nun me movo, ma che stai a scherzà…».
Quello che credo stia cercando di fare Matteo Renzi attualmente è, infatti, quello di istillare un po’ di questa mentalità e di precarietà, che è un concetto naturale dell’esistenza, (noi siamo in un’esistenza precaria, quindi non si capisce perché il lavoro non debba esserlo!) ed il coraggio di potersi muovere, uscire da questa specie di letargo esistenziale dove tutto sembra dover essere accudito entro le quattro mura domestiche, quantomeno nel quartiere o almeno nella città, «Nun s’azzardamo a fa’ di più perché se no i problemi non sono risolvibili». Noi nasciamo naturalmente come genere umano nomade, però siamo diventati stanziali, in questo paese eccessivamente stanziali. Talmente stanziali che tutto è stanziale. È tutto uno status quo dal quale non ci si muove. Premettendo che sono un po’ trans umanista, ovvero che secondo me siamo un po’ troppi in questo pianeta, e che io avevo a disposizione una metratura cubica esistenziale e di scelte di 5mq, e voi ora ne avete 2, il mio consiglio per i giovani è di cominciare a muoversi, ad esplorare e vedere se in giro si trovano cubature più grandi o comunque di crearsene una più ampia.

D: Lei ha ricevuto molti premi, qual è stato secondo Lei quello più bello, che vorrebbe ricevere altre volte o del quale vorrebbe rivivere il momento della premiazione?

R: Il premio in sé per sé, nel mio mestiere, è un riconoscimento che già ti è stato dato dal pubblico. Sono stato contento quando sono stati riconosciuti successi televisivi figli del disimpegno taluni e dell’impegno altri. Quello che non ho ricevuto è stato per il Sanremo del 2009, che secondo me è stato il più bello degli ultimi anni; invece, giacché ero passato nuovamente a Mediaset, la Rai ha pensato “di non prendere in considerazione un presunto traditore”, e quindi quel Sanremo non venne preso in considerazione. Ma detto ciò, il vero premio si riceve nel momento in cui si sa che il proprio lavoro è stato positivo, apprezzato, ed ha appagato le aspettative di coloro che lo avevano commissionato, e quelle artistiche personali. Perché, in breve, il premio è di per sé «un pezzo de fero».

D: Sappiamo che è un grande tifoso dell’Inter: facendo un parallelismo, nella sua carriera quando ha fatto il “triplete” e quando ha rischiato di finire in serie B?

R: Il triplete credo di averlo fatto negli anni di Domenica In (2003-2004), Affari Tuoi (2003) e Sanremo (2005) su Rai1. Domenica In veniva da un periodo buio ed è stata completamente rivoluzionata da me, gli autori e dalle persone che ci hanno lavorato. L’abbiamo riportata a trattare di argomenti molto forti, sceneggiandoli e raccontandoli con intensità in quanto la domenica era diventata «patrimonio di persone che facevano caciara». Pensavo che a quall’ora fosse interessante ascoltare qualcosa di particolare, e lo facemmo a dispetto degli intenti della stessa Rai1 che voleva continuare il percorso precedente. Mi lasciarono fare, e quell’anno la trasmissione ebbe un notevole successo. Affari Tuoi, invece, era una trasmissione che per la prima volta contrastava completamente Striscia La Notizia su Canale 5. Era considerata una trasmissione inavvicinabile per gli ascolti, che in realtà erano dati per il grande nulla di Rai1. Appena abbiamo emesso Affari Tuoi, la concorrente Mediaset ha iniziato a vacillare fino a quasi chiudere, l’anno successivo. Due anni dopo presi in mano la direzione artistica di Sanremo: lo stravolgemmo completamente. Togliemmo dal palco l’orchestra, spostata nel golfo mistico, aggiungemmo schermi LED che seguivano con immagini il testo della canzone, ed ognuna aveva la sua coreografia e scenografia, format che ha poi ripreso il prodotto X Factor.
L’anno della serie B può essere considerato l’anno di emissione di Italiani (2001), trasmissione che andò particolarmente male; non solo per la scrittura del programma, e per aver preteso la diretta ma soprattutto perché quell’anno Giorgio Panariello andò in onda con uno spettacolo stupendo “Torno Sabato”, che ci fece letteralmente a pezzi.
Quindi triplete dal 2003 al 2005, e quasi serie B nel 2001… Ma ricordiamoci che l’Inter non è mai andata in serie B!

D: Qualche dritta su come diventare conduttori?

R: Non c’è un consiglio particolare sul come fare il conduttore. Bisogna avere delle peculiarità, delle eccellenze che possono essere nell’utilizzo del linguaggio, nella serenità che trasmetti ai collaboratori… Ma fondamentalmente bisogna avere qualcosa da raccontare, che tutti abbiamo. Ognuno di noi è un fatto unico ed irripetibile, come te non ci sarà mai nessuno al mondo, non c’è mai stato e mai ci sarà, perché l’immensa alchimia degli eventi che contraddistinguono la nostra crescita è talmente immensa e variegata che nell’assemblaggio shakerato ci rende unici ed irripetibili. Quindi se anche televisivamente parlando riesci a dare forma alle tue fantasie, a raccontarti, a rendere spettacolo te stesso potrai fare questo mestiere in totale serenità.

Tutti possiamo raccontare qualche cosa, il problema nasce quando quelli che fanno il mio mestiere invece che FARE televisione STANNO in televisione; si preoccupano di cosa la gente vorrebbe ascoltare, che è un’oggettiva scelta di mercato, ma non si pongono la domanda del cosa loro stessi hanno da raccontare, sono quindi narratori fasulli.


Le quattro domande a bruciapelo dei “Se fosse…?”

D: Se fosse un politico del passato, chi vorrebbe essere?

R: Winston Churchill. Perché aveva una sagacia nella risposta e nell’uso dei rapporti interpersonali che mi ha sempre affascinato. Ricordo un aneddoto che mi ha sempre affascinato di Churchill: ad una cena di queste diplomatiche, una donna seduta al tavolo con lui gli disse “Se io fossi sua moglie, Le avvelenerei la minestra!” e Churchill rispose “E se io fossi suo marito, la mangerei subito”.

D: Se fosse una donna?
R: Se fossi una donna mi divertirei tantissimo, perché vorrei essere una donna affascinante, accattivante. Quindi credo vivrei la fame maschile con molto divertimento; mi divertirei a creare scompiglio ormonale nel mondo maschile, mantenendo comunque la mia dignità, la mia storia, i miei limiti morali ed etici. E come Woody Allen disse “Se nascessi donna starei tutto il giorno a toccarmi le tette”

D: Quasi tutti gli uomini rispondono la stessa cosa “Se fossi donna la darei via facilmente”…
R: È vera questa cosa; perché l’uomo deve convincere la donna, mentre il maschio è molto più disponibile a questo, cioè «se una si rende disponibile il maschio carica!» quindi per la donna quel tipo di esistenza è molto più facile rispetto a l’uomo che «invece se la deve suda’».

D: Se fosse un libro?
R: Cent’anni di solitudine. “Muchos años después, frente al pelotón de fusilamiento, el coronel Aureliano Buendía había de recordar aquella tarde remota en que su padre lo llevó a conocer el hielo.” (Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.) che è uno degli incipit più belli della storia della letteratura mondiale. Però ho amato molto anche la fantascienza, mi sono avvicinato a questa quand’ero ragazzino ed ho letto praticamente quasi tutto, da Farmer a Bradbury, perchè nella fantascienza leggi sempre di quello che sarà. È difficile che un libro di fantascienza sia lontano da quello che poi accadrà nel futuro. E questo ti da uno spaccato sull’ignioto che lo rende tremendamente affascinante. Poi mi piace la lettura agile e introspettiva; ad esempio King, il maestro, ha critto libri che vengono vissuti con molto entusiasmo per le stroie che raccontano, che in realtà sono delle grandi introspezioni psicologiche: per esempio IT è una lettura sul mondo psicologico dell’infanzia che è fantastica. Mi ricordo che lui in un libro, presupponendo un incipit per un romanzo ideale, scrisse “Dopo quarant’anni, l’ultimo uomo rimasto sulla terra, sentì bussare alla porta…” «Cazzo! Mo’ che è? Chi è?!».
Sono queste le cose che mi affascinano molto; quando riesci a scavallare l’ovvio del quotidiano e a dedicarti alla lettura che ti offre un universo parallelo, la logica del multiverso: tante cose accadono intorno a te, ma accadono sempre le stesse. Quando qualcuno riesce a farti accadere, anche solo tramite la lettura, qualcosa che non sia «Ambarabà ciccì coccò, tre civette sul comò» sei sempre molto contento.

D: Se fosse un alimento?
R: Uhm… ci sono tante cose che mi piacciono tantissimo. A me piace praticamente tutto. Non so di particolare… sicuramente sono molto mediterraneo quindi pane ed olio, anche la pasta, ma mi piace molto anche il prosciutto, mangio tanti peperoncini, «SO NA SEGA IO», gli affettati… Non saprei scegliere un alimento. Diciamo che mi piace qualsiasi cosa sia commestibile tranne i cachi. I cachi a me piacciono, ma da ragazzino rischiavo di rimanere strozzato da un filamento di caco e mio padre «mi ficcò du dita in gola» e me lo tirò fuori. Di conseguenza ho questa memoria biologica del caco percui, quando vedo il cachi, avrei voglia di mangiarlo ma non ce la faccio «me pija na sorta d’ansia da soffocamento istantanea».

Articolo di Beatrice Giunta

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